Come crescono i dislessici: sofferenze, successi e identità.

dalla relazione del Dott. Enrico Ghidoni

Cosa succede quando i dislessici diventano adulti? Il punto di partenza su cui riflettere è che già durante la scuola primaria, i ragazzini dislessici imparano che la vita è una sfida continua, dal momento che devono in qualche modo imparare strategie di sopravvivenza. Trovare delle strategie per il successo è la prima esigenza del bambino dislessico. E la scuola, in questo caso, diventa una vera e propria scuola di vita. Quella che si pone allo studente è una sfida che mette in campo la sua intelligenza, stimolata dal fatto che essere dislessici porta con sé una sofferenza psicologica, che si manifesta fin dai primi anni della scuola primaria e che arriva a connotare la vita di questi bambini. La sofferenza è un grosso stimolo per sviluppare l’intelligenza, ci permette di cercare e scoprire soluzioni per i problemi di ogni giorno. Questo significa imparare ad usare strumenti, imparare perfino ad usare le altre persone e le loro risorse. Si innesta una serie

di rapporti di scambio con queste persone che caratterizza anche in seguito la vita dei dislessici. Uno degli aspetti più rilevanti in questo contesto di situazione dinamicamente complessa è la consapevolezza. Il tema della consapevolezza è un’arma importante per la gestione dell’essere dislessici. Su questo tema le cose stanno cambiando rapidamente, quello che sembra emergere è una differenza generazionale rispetto a qualche anno fa, che probabilmente è anche il prodotto dei mutamenti culturali che sono in atto. Stanno crescendo dei nuovi bambini dislessici, che poi diverranno adolescenti e adulti dislessici ben consapevoli della loro condizione e che utilizzano questa consapevolezza in senso positivo, anche per la contrattazione del rapporto con le persone e le istituzioni. Sapere di avere la dislessia e essere dislessici sono due modi di esprimere un concetto che non è equivalente. Sapere questo e integrarlo nell’immagine di se che uno ha, permette anche di rinegoziare il rapporto con il mondo. Questo introduce il concetto di empowerment, di arricchimento della persona e della capacità di gestire consapevolmente il mondo che la circonda. Probabilmente uno degli obiettivi più importanti che si dovranno porre i ricercatori, nel rapporto con persone che hanno queste problematiche di disturbi specifici dell’apprendimento, è quello di far acquisire la consapevolezza che comunque, nonostante il problema che hanno, loro possono essere padroni della propria vita e percepire di esserlo. Questo per il successo e la felicità è un punto fondamentale e forse i tecnici che fanno la diagnosi dovrebbero porsi non solo l’obiettivo di fare una diagnosi corretta. Ma la consapevolezza a sua volta pone un altro problema, quello dello svelamento, dell’utilizzare questa consapevolezza anche per far sapere agli altri del proprio disturbo. E questo è uno dei problemi: la maggioranza dei dislessici continua a non avere la voglia di far sapere agli altri dell’esistenza di questo problema. Le cose, tuttavia, stanno cambiando nel corso del tempo e dipendono sempre da persona a persona: io non faccio sapere ad un altro una cosa che mi riguarda se penso che l’altro questa cosa la giudicherà male. A questo punto diventa un problema della società quello di avere un concetto della parola dislessia che non sia un clichè pregiudiziale, basato su conoscenze datate.

Psicologia del dislessico.
Collegati a tutte queste problematiche subentrano problemi di natura psicologica. Già nell’età evolutiva i dislessici presentano problemi di bassa autostima, depressione e ansia. Questo determina un disagio psichico che si ripercuote anche sulla personalità ma che contemporaneamente è modulato dalla presenza di caratteristiche personali che determinano modi di reagire molto diversi. La varietà dei vissuti in questi casi è molto spiccata. Alcuni lavori mostrano che i dislessici adulti non hanno più problemi psichici rispetto alle persone non dislessiche. Certamente c’è una dinamica tra l’accettazione e la negazione che percorre tutto il ciclo di vita delle persone con dislessia. All’interno di questa dinamica è fondamentale l’impatto della diagnosi, che molto spesso rappresenta un punto di svolta che può cambiare il modo di interpretare la propria vita in senso positivo, nel momento in cui dà la consapevolezza della propria condizione, e in senso negativo se questa consapevolezza viene ad essere condizionata dall’accezione sociale retrograda del termine Dsa. Come si può eliminare lo stigma della dislessia? Possiamo considerare naturale questo stigma, intendendo come naturale il fatto che in una società c’è sempre chi ha qualche caratteristica diversa e che per questo viene etichettato in senso negativo? Sul tema dello stigma hanno importanza fattori di carattere personale, relazionale e culturale. L’obiettivo dello specialista dovrebbe essere, perciò, aiutare a decostruire lo stigma. In qualche modo i diversi livelli di descrizione del fenomeno (disturbo, disabilità, caratteristica) sono dei passi importanti verso questa direzione. Il mondo dei dislessici adulti è una realtà in evoluzione. I nuovi dislessici sono dislessici diversi, consapevoli dei propri diritti, che rivendicano sia la necessità di avere un aiuto sia la propria differenza come un valore positivo. La vita adulta è dura per i dislessici, ma lo è meno della scuola. Il fatto che gli anni a scuola siano stati così duri per i dislessici può rappresentare una specie di allenamento per la vita adulta. Le dolorose esperienze del periodo scolastico possono essere reinterpretate a posteriori e trasformate in un allenamento per affrontare la vita più corazzati.

Ricerca della propria nicchia.
I modi di vivere la propria condizione di dislessico sono estremamente diversificati nell’adulto. Il punto fondamentale per una realizzazione positiva del dislessico è la creazione di una propria nicchia: il trovare la nicchia giusta, dove esprimersi al meglio a livello sociale e professionale, migliora la compensazione funzionale e psicologica. Certamente una cosa interessante è capire il significato sociale attuale della parola dislessia. C’è in atto un’evoluzione culturale, in cui da un lato si accetta l’ontologia neurobiologica del problema e dall’altro c’è la consapevolezza che la tutela, il supporto e l’aiuto richiedono il riconoscimento di una differenza. Anche la recente legge va in questa direzione: vengono concessi diritti e aiuti nella scuola, ma questo richiede la diagnosi, cioè l’ufficializzazione della presenza di una differenza, di un’etichetta. Ci sono sempre state, soprattutto in ambito psichiatrico, polemiche tra le posizioni pro e contro etichetta, con queste ultime che affermano che questa avrebbe un significato negativo dal momento che classifica una persona e la discrimina socialmente. Ma la stigmatizzazione sociale negativa avviene prima o dopo l’etichetta? Dipende dal peso delle ideologie, di certi aspetti culturali più generali. In ogni caso se non si utilizza un’etichetta, c’è il rischio che la persona venga stigmatizzata ugualmente in senso negativo, ma con un altro aspetto peggiorativo, non essendoci il discorso di carattere medico-psicologico-neurobiologico sottostante. Alla fine il fatto che non si usa un’etichetta diventa una responsabilizzazione del soggetto e una sua colpevolizzazione: se il problema non è dovuto a questa entità che ha un substrato neurobiologico, allora diventa un problema di responsabilità e di impegno personale. Così facendo si ricade però nelle posizioni di tipo negazionista, che sono quelle che stiamo cercando faticosamente di superare. Il problema risiede nella complessità dello status definitorio della condizione dislessica, un’entità che ha una genesi neurobiologica, ma in cui l’intervento si svolge in un contesto essenzialmente educativo e pedagogico, il che rappresenta un’ambiguità anche semantica di questa situazione. Sarebbe necessario fare quel salto culturale che ci permetta di mettere insieme aspetti del sapere abbastanza disparati, che comportano l’integrazione delle conoscenze delle neuroscienze, ma anche della psicologia e della pedagogia.

Identità.
La narrazione autobiografica è spesso per i dislessici uno strumento utile per costruire o ricostruire la propria identità. Quanto, tuttavia, la costruzione dell’identità è condizionata dalla condizione della dislessia? A volte lo è in maniera veramente importante, perchè l’identità si costruisce sulla base del successo nelle attività quotidiane. Questo aspetto così delicato in età evolutiva può comportare un condizionamento grave nella costruzione dell’identità personale. Nel momento in cui da adulto, o anche prima, il soggetto ha la diagnosi di dislessia viene messo nelle condizioni di realizzare una ridefinizione della propria identità, una rilettura di tutto il proprio passato. Addirittura c’è chi parla del momento della diagnosi come di un momento di transizione biografica, in cui la vita prende un’altra direzione. Le storie e le narrazioni personali permettono di individuare delle tipologie, un tentativo di creare degli archetipi in cui Cardano distingue quattro categorie: i dislessici prigionieri, che sono quelli che hanno la dislessia come potrebbero avere qualsiasi altra malattia; i dispensati, quelli che hanno fatto una specie di patto di non belligeranza con il problema e che hanno sviluppato tutte le strategie necessarie per evitare le attività deficitarie che li pongono in difficoltà; i resilienti, che non si fanno piegare, sono in una continua battaglia per superare le proprie difficoltà e scoprono le nicchie giuste per poter arrivare al successo; gli speciali, quelli che intendono l’essere dislessici come un dono.

Questa non è l’unica classificazione. Ad esempio secondo D. Pollack gli studenti dislessici vengono divisi in: il paziente, lo studente, l’hemispherist e il campaigner. Il paziente è quello che ha internalizzato una visione medica della dislessia (come il prigioniero) e si considera come uno che soffre di una determinata condizione di deficit; gli studenti guardano alla dislessia come a qualcosa che colpisce solamente il contesto educazionale, delimitando il problema; gli hemispherists sono bravi nella metacognizione e lavorano sui loro modi di apprendere, teorizzando il discorso della diversa capacità dei due emisferi cerebrali di trattare l’informazione (pensiero olistico vs pensiero verbale); i campaigners vedono il problema come una questione politica e sono determinati a lottare per i propri diritti nel contesto sociale in cui si trovano.

La consapevolezza di questa differenza dislessica dà origine a impostazioni, come quella di Thomas West sul rinascimento dislessico, che mettono l’accento sul pensiero visivo che caratterizza molti dei dislessici e che connota il loro stile cognitivo rispetto a chi utilizza prevalentemente un modo di approcciarsi al mondo dell’apprendimento di tipo verbale. L’anno scorso a Reggio Emilia Ross Cooper ha fatto un discorso particolare, che ha suscitato anche qualche perplessità nel contesto italiano, in cui propone un cambiamento di paradigma. Da dislessico adulto, nonchè professore universitario, sottolinea il proprio “orgoglio dislessico”, ponendo il tema della neurodiversità e della dislessia non più come deficit, ma come differenza. Il deficit nella sua concezione diventa un artefatto sociale, dove l’importanza risiede nel fatto che il dislessico ha degli stili cognitivi diversi da chi non è dislessico. La dislessia viene vissuta da Cooper come un tratto fondamentale della sua identità di individuo. In modo significativo afferma che: “non siamo resi disabili dalla nostra dislessia in sé, ma dalle aspettative del mondo in cui viviamo… Io non sono una persona che ha la dislessia. Io sono dislessico. Se non fossi dislessico, non sarei io”.

Un modo diverso di vivere la propria identità, in cui emerge una forma di identità negata, è quella dello scrittore Daniel Pennac. Da tutto quello che Pennac ha scritto nei suoi libri, nel modo in cui ha parlato dei suoi problemi di lettura si capisce che era dislessico, eppure non lo ha mai detto. Un esempio di posizioni negazioniste in Italia è la Prof.ssa Pellegrino che da anni compie una crociata contro la dislessia. Dal suo punto di vista, la dislessia non esiste, esistono solo dei bambini bravi o dei bambini cattivi e solo insegnanti bravi oppure incapaci. E la dislessia non sarebbe altro che un’invenzione degli psichiatri per crearsi un mercato per i farmaci, sebbene non esistano farmaci per la dislessia. Questo tipo di impostazione ideologica ha una sua giustificazione nella misura in cui si assume che il messaggio che viene dato agli insegnanti è negativo e li si pone davanti ai propri limiti di non riuscire, per esempio, a insegnare correttamente le tabelline e la lettura a tutti gli alunni.

Insieme a queste situazioni di negazionismo da un lato e di estremismo di certe identità dall’altro, in cui la dislessia viene portata come valore positivo, si ha una posizione diversa: quella delle nuove identità dislessiche. Si possono citare i casi di Giacomo Cutrera che ha scritto il libro “Demone bianco” e di Filippo Barbera, pure autore di un libro, entrambi dislessici. In particolare “Demone Bianco” racconta la storia di questo ragazzo alla scuola superiore e all’università e del modo, anche ironico e spiritoso, con cui cerca di fronteggiare il suo problema. Da queste narrazioni della propria esperienza emerge un’immagine nuova, in cui le identità dislessiche teorizzate in precedenza sono superate dai fatti: c’è una nuova visione, un nuovo modo di affrontare la propria condizione, una nuova consapevolezza. Alla fine il segreto del successo è un’interazione dinamica di tanti fattori, ma sicuramente la maggior parte dei dislessici può trovare la propria strada per diventare persone realizzate e anche dislessici di successo.

tratto da: www.neuroscienzeanemos.it

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